giovedì 4 novembre 2010

Un tetto di ghiande per solitudini variegate

Troppo sonno per pensare, troppo anche per scrivere. Scriverò lo stesso però. Non riesco più a farne a meno, non sono mai stata così fedele neanche alle pagine di un diario per quanto mi abbia sempre affascinato l’idea di sigillare con un lucchetto pensieri già meglio sigillati nella mia testa. Un diario non serve a niente, forse a mettere ordine negli eventi e guardarli dall’esterno, ma anche in questo caso svolge un ruolo secondario. Tutto quello che ha è un fascino bestiale: il bestiale fascino del lucchetto. Ci illude che le nostre inutili speculazioni possano essere d’un interesse tale da doverle trascrivere e tutelare affinché un Arsenio Lupin scadente non le rubi. In realtà aneliamo eccome che le rubi. Probabilmente è questa la certezza che mi ha spinto ad aprire questo blog, senza però la presunzione d’investire di un qualche interesse ciò che scrivo: a malapena interessa me. Perciò lo scrivo. Lupin non ha niente da rubare qui e io spero venga ad accorgersene.

Troppo sonno anche per giungere al termine della puntata dei Griffin. Eppure scrivo. Scrivo perché per la prima volta, mi è concesso utilizzare internet nella mia camera. In realtà questo wi fi non cambia granché, ma c’è qualcosa…un soffuso aspetto intimistico nello scrivere circondata dalle mie cose, come se il computer e internet mi potessero osservare mentre dormo e sciogliessero loro i miei nodi, domani mattina. Come se questa fosse una finestra aperta ed entrasse Peter Pan a chiedermi di seguirlo sull’Isola che non c’è (non potrei contare quante volte l’ho aspettato sul serio da bambina, prima di addormentarmi, davanti la finestra, urlando storie affinché potesse sentirmi…), e come se io potessi tranquillamente farlo intrufolandomi nello schermo del pc. Come se veramente io abbia un segreto succulento e imprescindibile da picchiettare su tasti bollenti che, mi rendo conto solo ora, imprimono a fuoco le loro lettere sui polpastrelli: loro scrivono su me e io, sciocca, m’illudevo del contrario. O forse è una sorta di libertà: ora che sono celata a sguardi indiscreti posso fare di tutto, posso stare tutta la notte sveglia a vergare le mille forme fumose del niente e non è detto che non lo faccia. Potrei accendere la webcam ed esibirmi in danze senza veli alla mercé del primo reperibile in rete, e non detto che non faccia anche questo, senza pudore, senza freni, senza pensieri, per non avere più paura di svuotarmi del tutto. Strano come il cambio di un modem possa portare a questi desideri o azzardi o che so io, quando prima non ci avevo mai pensato. Eppure sotto questo strato di sonno pesante sono euforica e stranamente serena. E’ l’autunno sempre più piovoso, tormentato e bigio, ma con sprizzi di sole che frantumano il mondo del marrone e delle sue gradazioni che regnano incontrastate e malinconiche sulla mia terra.

In realtà, segregata nel mio paese dopo anni trascorsi a Cosenza, mi mancano quegli aspetti dell’autunno più montani di cui ero solita bearmi abbondantemente non senza rimorsi. Una nostalgia che non credevo possibile (non che abbia lasciato una vita migliore a Cosenza che sia degna di tale nostalgia), ma ora il mio mare è inaccessibile, e romba e sbatte e chiama, lo sento fin da qui, ma non lo posso raggiungere: si sta trasformando, come me, lui nel Poseidone famelico delle storie, io nel…. . Non visualizzo in cosa, distinguo solo un velo che cela quella che sembra la mia sagoma incerta, dai contorti sfilacciati, in balia di venti statici e invisibili.
Mi mancano le tonalità viola e dorate degli alberi cosentini, quelli alti e dalle forme variegate che circondano l’università e la rendono troppo simile a uno dei miei sogni per non amarla, scordando un attimo quel che invece è davvero e il terrore che mi instilla. Mi manca la collinetta dietro la biblioteca, dove anche nelle altre stagioni permane un tappeto di foglie d’autunno; i miei alberi che sovrastano panchine sempre vuote, se non occupate dai branchi di cani randagi che figliano tra quei cubi come se loro, avessero trovato il posto adatto per vegetare, “università da cani” non è un eufemismo per l’Unical. Panchine sempre vuote, vuote per reggere il confronto con una vita piena che non ha tempo per gli alberi, vuote se non occupate da me, che vuoto da riempire ne ho bastevole per la foresta vergine. Quante volte sono fuggita dalle aule ingombre di studenti incastrati alla perfezione tra i banchi costruiti su misura per loro! Evidentemente la mia misura era troppo difficile di ricreare, perché in nessuno di quei banchi, tra nessuno di quegli studenti mi sono mai incastrata alla perfezione. Guardarmi intorno con la certezza - stampata su ogni volto, su ogni lavagna, su ogni slide, su ogni cartella di professore - di essere l’unica fuori posto, fino a dover fuggire per non soffocare tra banchi troppo stretti, tra studenti troppo perfetti per la mia imperfezione. E allora andavo lì, da quelle panchine snobbate da chi aveva un ben più comodo, caldo, confortevole e inorgogliente banco su misura.
Gli alberi non hanno misure, possono coprire e proteggere chiunque; le panchine sono fredde adatte a chi è abituato a vivere nel gelo, adatte per cani, barboni e me. E leggevo. E guardavo le ghiande tintinnare come campane bronzate davanti ai mie occhi, dietro la mia testa, accanto alle mie orecchie, sotto i miei piedi, sopra la mia testa, tra le foglie oro di quel tappeto chiazzato di rosa antico e verde timido. E ambivo alla forma perfetta dele ghiende che nulla ha da invidiare agli studenti, perfetti anche loro. L’università è un gioco al perseguimento della perfezione, in qualsiasi campo e di qualsiasi genere essa sia. Le invidiavo perché loro stavano lì, proprio dove dovevano, snobbati da tutti e indifferenti, placide, a giocare col sole e a farsi dondolare dal vento senza sentirsi in colpa per questo e per non riuscire a costringersi in un banco dalla forma di qualcun’altro.

Chissà se gli alberi sono ancora lì o se qualcuno ha preso il mio posto su quella panchina. Tanto né loro, né le ghiande ridenti o le foglie caduche se ne accorgerebbero.
La settimana prossima salgo a Cosenza, per scoprirlo.

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