domenica 21 novembre 2010

La stanza con la ragazza dimenticata dal tempo

E’ domenica mattina, sono le 6. La casa dorme, la strada dorme, il palazzo dorme, anche il uccelli dormono, il paese dorme. Ma quello dorme sempre, non è una novità.
Una patina argentina filtra dalle persiane serrate del balcone e soffonde la stanza di una luce antica, come fossi in una casa dimenticata dagli uomini e dal tempo, immobile e silente chissà dove chissà quando.
Mi sono svegliata così presto con il sano proposito di mettermi a studiare fin da subito. Proposito che ho badato bene di non rispettare, of course.
Non leggo e non faccio altro per poter studiare ma quando prendo il quaderno o i libri, si annebbia la vista e l’ansia mi strozza. Se utilizzassi quei momenti per scrivere diverrei la più prolifica delle scrittrici perché la nebbia che cela il quaderno, spalanca tante immaginifiche finestre davanti ai miei occhi, al punto che ho l’imbarazzo della scelta nel decidere in quale immergermi. Sono quasi sempre sensazioni che si succedono, ma anche storie possibili e futuribili, personaggi a me sconosciuti che diventano miei amici.
Almeno lì.
Almeno loro.
Forse per questo tendo inconsciamente a ricercare la nebbia, perché mi avvolge e conforta e mi fa stare bene. Solo per un po’. Fin quando il beneficio dell’immaginazione non s’infrange.

E’ così ho acceso il pc.
Entro con la mente piena e solo questo riesco a scrivere, solo questa inutile e cronachistica ondata di pensieri. Oramai sono talmente abituata che se non li trascrivo, i pensieri mi stritolano i timpani in urli acuti o si stipano nella mente impedendole qualsiasi altro sfogo.
Ma fa freddo.
Neanche il pail in cui mi avvolgo abitualmente come un baritozzo giallo, azzurro, verde, rosa, riesce ad allontana i brividi. E’ quel gelo mattutino, giovane e vorace, annienta il calore soporifero delle coperte.
Ho bisogno di essere scaldata.
Ma nel vuoto della stanza dai barlumi antichi, non c’è niente che emani calore proprio, non c’è nessuno che voglia scaldarmi o che possa farlo. Ho bisogno di mani che mi reggano, di braccia che mi avvolgano, di labbra che si fondano con me. Ne ho dannatamente bisogno, ora più che mai in questo gelo silente, mattutino, domenicale.

Vado a fare una doccia. Bollente.

L’acqua calda riesce a raggiungere e riscaldare ogni superficie del mio corpo. Il gelo è scomparso, il calore è trattenuto dall’accappatoio, gocce residue di acqua tiepida sembrano dita che percorrono stuzzicanti la mia pelle. Non riesco a risparmiarmi un imbarazzante brivido di piacere nell’immaginare che le ramificate traiettorie delle goccioline ancora libere dalle fibre dell’asciugamano, siano dita esperte anche se rachitiche, che scivolano solleticandomi, dall’incavo del collo, fino alle colline del petto.
Non è colpa mia.
E’ questo odore che lascia correre a briglia sciolta la mia immaginazione.
Mi stordisce.
Ho avuto la bislacca idea di incrociare due bagnoschiumi diversi, dai fragori di natura opposta e il risultato è stato inebriante, troppo inebriante per la mia mente già facile a voli pindarici. Il mio fedele bagnoschiuma alla cioccolata bianca è solo un retrodore goloso che lascia trionfare quello ai fiori di loto e ninfee, carnoso, asiatico, floreale, di foresta sbocciata, eccitata e in amore.
Questo odore di un altro pianeta, il calore salvifico, il silenzio ritrovato, il chiarore lunare fuori luogo, la stanza dai riverberi antichi, le gocce di dita che mi accarezzano… e io non sono più nella mia stanza, una serena domenica di novembre alle 6.30 circa, sono da tutt’altra parte, sono tutt’altro che sola.

Ed è bello.

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