giovedì 18 novembre 2010

Enfiata di versi, foglie e peccati carminio


Mi sono riappropriata dell’autunno espressionista e boschivo che incastona Cosenza oramai da una settimana e non riesco a scrollarmelo di dosso. Lui e i suoi effetti plurimi, variegati e devastanti che si trascina dietro e mi stampa addosso irrimediabilmente, da sempre.

Quel manto di melanconia mi sopprime e io lo lascio fare, trastullandomi negli effluvi vaporosi, umidi di tronchi d’alberi, scrocchianti di foglie secche calpestate, grandi, seducenti, maniformi, incurvate in ramificazioni precise, viola e bordeaux, sfumanti in ori dai milioni di inenarrabili pigmenti, bronzo di polvere vaporosa in cui si sfaldano per sparire dalla storia, al mattino quando le gocce d’argento della brina ghiacciata annunciano l’imminente arrivo dell’inverno a scolorire il trionfo marronato e caldeggiante dell’autunno. Ho sprofondato nell’erba giovane e brillante dei parchi e delle zone verdi dell’università, immutate e immutabili perché nessuno sembra intaccarle, perciò possono mantenere un riserbo prezioso come un tocco d’ambra che attornia la felce centenaria. Ho ricercato in quegli stessi rami tendenti al cielo marrone o spioventi in radici pettinate, versi tessuti in lingue ataviche e norrene, intraducibili in queste terre, pendenti, stanchi e irretiti in boccioli schiumanti una maturità ricca, ma abbandonata. Quel mondo che apre l’autunno, che si manifesta in colori atipici e violeggianti, contorna e attinge a pitture visibili attraverso squarci spazio-temporali remoti. E’ per questo che le foglie cadono! Così frutti traslucidi di versi imberbi, possono sbocciare per enfiare i versi passati ancora fissi sui rami perché da nessuna mano consapevole colti. Sono troppi e troppo grandi perché io sola possa assolvere questo compito, c’è tanto, troppo da aspirare, i miei polmoni sono pieni e stanchi. Cedono il compito a stomaco e intestino, ma anche se continuo a ingurgitare vorace per gustare il tocco dolce e saporoso della felicità fugace, anche lì non entra più niente: dovranno restare ancora lì, a trafugare lo spazio legittimo delle foglie, fino a quando la porta si chiuderà e il dipinto stingerà in germogli più terreni e primaverili.

C’era ancora nel parco antistante la fermata dell’autobus, il giovane albero anarchico, ai cui piedi solevo trascorrere ore di letture, con il tronco levigato in metallico beige-bronzato e sulla corteccia, incisa da mani umane, una “A” cerchiata e anarchica quanto lui. Chissà chi l’ha scritta. Se non l’avesse fatto non avrei probabilmente votato il mio tempo al decolorare delle sue foglie, non avrebbero queste coronato la mia fronte e la mia vista con la loro aggraziata caduta dalle nuvolose coreografie. Eppure un filo conduttore invisibile mi lega a quella mano anarchica d’artista irrispettoso che ha deciso per me dove come e perchè avrei trascorso tante ore inutili e perse della mia inutile e persa vita.

Foglie in sentieri, intrecciati sotto rami rossi e rosa, gialli e verdi, viola e marroni, stecche di luce timida che ricama i sempre più ampi pertugi tra le foglie, le panchine infossate nel terreno, sommerse da foglie in fogli, secchi e leggeri, cadenti, ingovernabili, pozzi di fruscii dai sedili ingioiellati e nero carminio, per ritratti di altri mondi, non per sederi di questo.

E non mi sono ancora ripresa.
Quel colore, quella nebbia, è una lente che offusca ogni cosa e la traspone in venature e dimensioni diverse che non hanno posto qui, fuori luogo quanto me, e io annaspo perché non ho più punti di riferimento. Niente trova collocazione degna fuori, tutto s’accumula dentro e io mi gonfio come un pallone aerostatico che fatica a prendere il volo, ma non riesce neanche a guardarsi allo specchio, troppo offuscata è la sua vista, troppo immenso il suo corpo che continua a enfiarsi ed enfiarsi ed enfiarsi, dove tutto entra senza che niente esca, e viva e nasca e produca e viva e viva e viva e viva. Farfalla chiusa per sempre in un bozzo sotto grattacieli stillanti asfalto nero che soffocano foglie fiori frutti e alberi e onde e mare che dorme oleoso, senza onde… Dove sono le onde? Sono morte anche loro? Perché non cantano e schiumano? Come può il mare non respirare più? E’gonfio anche lui? Non esplode più oramai, non ha senso, si limita a ingrigire celando i suoi tesori, scrupoloso: “Se non mi muovo nessuno li noterà, nessuno ruberà” - sembra pensare.
Ah, ma certo!
Se anche io non mi muovo nessuno verrà a soppesarmi e interrogarmi e a violentare le mie urla senza echi, i tortuosi sentieri conducenti in oblii perlescenti e abbacinanti e rosa. E gonfia, tutto questo rosa castrato, gonfia e pesa perciò non volo come il pallone aerostatico, tra filacci di zucchero a velo e cieli brillanti, ma affondo e peso, come la pietra grigia, nuda. Gonfia, erosa, muta, esposta. Morta.

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