martedì 23 novembre 2010

Della sfera-quartiere, della traiettoria del mio sguardo. Ovvero di niente.


Il quaderno è tra le mie mani. E’ stanco. E’ consunto laddove le dita hanno scavato solchi pieghettati, che si estendono per tutta la larghezza del quaderno facendogli chinare la testa e perdere la compostezza e la baldanza iniziale.
Le righe sono evidenziate con cura ora di fucsia ora di giallo e, in qualche pagina. di un lilla acceso e inconsueto.
Stona.
Stona con la luce della mia stanza, trasfusa dal ciliegio dei mobili, soffusa dalle tende di velo.
Stona col chiarore che filtra sempre più incerto dalle vetrate del balcone. Una luce aranciata, giallognola, malata. Così perché nasce da una sfera di nuvole che imperterrita incastra il mio quartiere in una dimensione sferica e immobile, come in una di quelle palle di vetro con la neve e il paesaggio fisso in uno spezzone quotidiano, sereno e natalizio.

Di natalizio nella mia sfera-quartiere non c’è ancora nulla. Tutto il resto potrebbe, invece, tranquillamente provenire da una boccia di vetro piena d’acqua, visto il silenzio attutito che vi stagna, i ben pochi e miseri cambiamenti che si sono succeduti nel paesaggio in questi anni, la lentezza con cui cambia solo la posizione di un auto, lo sgombero di un posto macchina o il ritrovo improvviso di tutte le solite e conosciute auto all’ora del pranzo.

I miei occhi sfiorano solo le righe, procedendo oltre, senza metterle a fuoco, scavalcano gli strati di velo delle tende, il vetro, il balcone deserto e si intrappolano nelle sbarre fredde della ringhiera, la mia prigione quotidiana, amata, odiata, blandita, combattuta, trascurata.
Si adeguano al giallastro vomitato su ogni altro colore.
Anche il pelo fulvo del gattone capo-banda ne risente. E’ arrogante questo gatto, dirige la squadra di felini del quartiere con una sicumera lasciva. Sta cercando di prendere il sopravvento sugli umani, lo so. Gli altri non se ne accorgono perché vivono. Io lo osservo spesso. Non ha paura di niente, se passa un’auto è questa a doversi fermare prima che lui decida di alzare il suo culone e con tutta calma farsi di lato. Se qualcuno cerca di scacciarlo si limita sbadigliare e a stendersi con malagrazia. Passa la maggior parte del suo tempo immobile, una sfinge attenta e millenaria sembra, come volesse far somigliare la nostra bolla di quartiere anonimo, in un più suggestivo paesaggio egiziano.
I suoi contorni sembrano disegnati, la coda arricciata ad arte, la zampa obliqua, fa la guarda al cassettone dell’immondizia da cui si nutre, e pure bene vista la sua stazza.
Eccolo che si gira e mi fissa. Lo so che mi sta guardando, che può percepirmi. Può stare ore a sbarrare gli occhi in fessure demoniache e fosforescenti. Sa che ci sono, mi vuole sfidare…

Distraggo io per prima lo sguardo per seguire il signor duce che si dirige austero e impettito verso la sua mercedes, arcigna quanto lui. Guarda sempre dalla mia parte il fascistone. Sa anche lui che ci sono. Siamo noi tre gli attenti osservatori del quartiere, gli altri non si accorgono di nulla.
La sfinge annovera dati per preparare le truppe all’assalto; ingenua.
Il duce controlla che quello che crede sia il suo regno segua le sue regole e che ci sia qualcuno a osservarlo cosicché possa volgere stizzito lo sguardo altrove, e dare agli altri l’impressione di superiorità grazie all’indifferenza cui si atteggia; patetico.
Io che vaglio, pondero, realizzo, derido, invento, svento, pavento, occhieggio, intrufolo e scassino storie senza interesse, ma storie sempre sono; diversa.

Lo scuolabus incrocia la mia visuale, trascinando la traiettoria del mio sguardo con sé in retromarcia e rifulgendo per un attimo di quel giallino pallido solitamente inosservato, oggi incredibilmente vivido nell’arancione vomito che attanaglia tutto. Si ferma davanti la casa accanto dove deposita le due sorelline in orridi grembiulini blu acceso. Sembrano sputate fuori da una prigione. Che poi, non è forse vero? Qual è la differenza tra la scuola elementare e la prigione?

Intercettato da due uccellini che s’intrecciano in un volo di piume e cinguettii buffi, il mio sguardo s’innalza, ora, verso la cupola sferica delle nuvole-conato nel cielo. Si poggiano sui cavi del telefono: usignolo e pettirosso dagli occhietti neri e lucidi e dai becchi canterini, cinguettii che rimbombano nel silenzio stantio della sfera-quartiere. Riprendono il volo insieme dopo avermi offerto un breve concerto saltellante; una scia melodiosa sempre più blanda li saluta mentre si tuffano nel grigioverdegiallinato del prato.
Come sarebbe bello seguirli nelle loro peripezie, che storie ne nascerebbero, con che animali canterebbero, quali cieli leggerebbero, quanti alberi stuzzicherebbero, quali avventure dipingerebbero.

I miei occhi ora vedono di nuovo le frasi evidenziate del quaderno flessuoso, non c’è posto per melodie e avventure di libertà e uccelli tre queste pagine e nei prossimi giorni della mia vita.

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