martedì 30 novembre 2010

L'intelligenza sale, allora la felicità scende

Uno dei miei episodi simpsoniani preferiti è quello che vede Homer divenire improvvisamente intelligente grazie alla rimozione di un pennarello che aveva incastrato nel cervello fin dall’infanzia quando se lo spinse su per il naso. Smessi i panni del beato beone che era, comincia a non divertirsi più per le corbellerie che sembrano intrattenere le persone normali (normalmente e unanimemente stupide più che altro, fa intendere Groening) e che tanto lo entusiasmavano prima, cerca quindi conforto e sfogo in interessi più intellettuali come i libri e questo lo porta ad avvicinarsi e ad apprezzare sua figlia Lisa, prima tanto lontana da lui.
E’ uno degli episodi delle stagioni di mezzo dei Simpson, in cui tutte le puntate sono belle in realtà, intelligenti, taglienti, magari viste e riviste decine di volte, ma che non smetti ma di ri-rivedere con piacere anche se le conosci oramai a memoria, battuta per battuta.

Sono tante le ragioni per cui amo questa puntata, oltre che per l’acume, caro ai Simspon, con cui argomenti e dialoghi sono trattati. In primis il fremente sollievo e l’esaltazione con cui Lisa accoglie finalmente qualcuno della famiglia così vicino ai suoi canoni intellettivi, interessi, modi di essere, visto che la sua diversità l’ha sempre resa sola. E’ una cosa che ho sempre desiderato anche io e situazioni del genere, che siano audiovisive o letterarie, mi incantano sempre, come è ovvio. Solo che nel mio caso, il pennarello dal cervello, non è stato tolto a nessuno della mia famiglia. A nessuno nel raggio di 200 kilometri, pare.
Una scena in particolare dell’episodio mi è rimasta impressa fin dalla prima volta che lo vidi: quella in cui Homer è sconvolto dalla reazione ostile dei suoi vecchi amici al suo nuovo stato di brainy man e rattristato dal fatto che questi lo scansano e isolano. Lisa gli spiega con serena rassegnazione che è perfettamente normale, che la relazione tra intelligenza e felicità è inversamente proporzionale: come una cresce, l’altra diminuisce. E quando Homer le chiede come fa lei a vivere così, a sopportare tutto questo, perché lo fa, lei risponde che la sostengono e ne valgono la pena molte cose come la letteratura e il jazz.



Mi piace rivedere a iosa questa scena perché mi genera una sorta di conforto. Il fatto che ci siano persone che condividono esattamente il mio status, mi consola, non mi fa sentire completamente sbagliata. Che poi sia un personaggio dei cartoni o che io sia comunque un disastro di essere umano non viene messo in discussione. Ma se qualcuno ha formulato che più sei intelligente meno sei felice oltre a me, allora deve essere così. Allora è vero e poco c’è da fare. Se poi a farlo è Matt Groening che considero un genio indiscusso e per cui nutro una stima sconfinata, mi conforta ancora di più.

Posso quindi ripensare con maggiore leggerezza alla sala del cinema stipata, quando qualche sera fa sono andata al Warner Village a vedere Harry Potter e i doni della morte, stipata di famigliole, gruppetti di amici, coppie in amore, coppie di compagni, coppie e basta.
Per l’ennesima volta mi sono sentita un’anima persa, ambigua, incerta, informe, come una domanda aperta cui nessuno troverà mai una risposta. Con quel groppo in gola che non scende giù fino a sfaldarsi nello stomaco, né si scioglie in lacrime. Che arrossa solo un po’ le guance, accese nel buio che ti cela in quell’angolo all’entrata mentre tutti si accalcano, parlano e ridono, mentre tu, piccola piccola, accoccolata più che puoi su te stessa per non urtare nessuno, cerchi di confonderti con la tappezzeria.

Li ho osservati tutti, uno a uno quelli che mi passavano davanti. Speravo, invero, che la magia di Harry si spandesse dal maxischermo e si perpetuasse in sala, illuminando qualcuno come me, di qualsiasi età, sesso, religione, forma. Magari, solo non per i miei stessi motivi, ma solo, che ne so, per rivedere il film venti volte. Invece niente, nada, non ce n’era uno spaiato neanche a pagarlo oro! E’ assurdo…passi che non ci sono persone come me da queste parti, ma che addirittura tutti trovino qualcuno con cui andare al cinema ha del miracoloso! Sarà che per me è stato sempre così difficile trovare qualcuno che venisse a vedere uno dei miei strambi film insieme (passi Harry, per quello a volte li ho trovati, dopotutto è sempre  uno dei film più chiacchierati della stagione). Perciò lo trovo
miracoloso. Sono bravi, non ci piove. Degli artisti, altrimenti come farebbero a districarsi così bene in una missione così ardua come quella di trovare qualcuno con cui andare al cinema?
Eppure vi riescono. Tanto di cappello.

Per testare il mio grado di invisibilità che quando sono sola al cinema diventa più evidente ed efficace del solito, come se avessi indosso il mantello dell’invisibilità (sempre per restare in tema Doni della morte), sperimentatrice cinica e masochista, mi sono seduta a uno dei tavolini alti nella penombra riverberata dalla luce a led degli schermi. Con quale macabra soddisfazione mi sono resa conto che il mio esperimento autoreferenziale dava gli esiti previsti al punto che chiunque passasse sembrava neanche notare la mia presenza. L’invisibilità raggiunse livelli camaleontici da cacciatore provetto in safari nella savana più selvaggia, quando un gruppo di gracidanti liceali venne a sistemarsi proprio al mio tavolino! Proprio come se io non ci fossi, sedevano intorno al mio stesso tavolo e parlavano tra loro ignorando totalmente la mia presenza e sbocconcellando popcorn. Arrivai - beffarda ormai non riuscivo a non sghignazzare vista l’ilarità tragica della scena - addirittura a fissare intensamente qualcuno di loro, casomai notassero la mia presenza come quella metafisica di uno spirito, percependo anche solo quel prurito alla base della nuca che ci dà l’indizio di essere osservati. Invece niente.
Esperimento riuscito al 100%.
Io non esisto al di fuori della stretta cerchia familiare che deve sopportarmi o dell’ufficiale garanzia di timbri e documenti che mi rendono abbastanza palpabile. Qualche ragazzina spumeggiante e anonimamente modaiola, mi ha anche fissato interrogatoria e alquanto schifiltosa, ma un attimo, come si osserva la strana conformazione che le venature della parete sembrano assumere a richiamare una forma. Poi ha dissolto lo sguardo dimentica della strana forma.

Secondo la teoria di Lisa, chiamiamola così, essere quella che sono, ha come conseguenza cinema in solitaria, per lo più. Ma siccome sono orgogliosa di quello che sono e di ciò che le mie scelte mi hanno portata ad essere…Ehi, un momento. Ma io non sono affatto felice orgogliosa di quello che sono, è qui che sta l’inghippo! Non sono così intelligente e capace e studiosa come Lisa e non sono neanche una beata beona, quindi chi stracacchio sono?

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