mercoledì 28 dicembre 2011

Pensieri affini: Sylvia Plath e me

Scritto il 12 ottobre 2009

Tratto da "I diari di Sylvia Plath"




Posso scegliere se essere costantemente attiva e felice o introspettivamente passiva e triste. Oppure diventare pazza rimbalzando da un umore all'altro.

Di colpo le voci basse e complici del gruppetto di ragazze si sovrappongono in un mormorio incomprensibile e i loro occhi scivolano sfuggenti attraverso di te, intorno a te...e ti vengono in mente un mucchio di brandelli sgradevoli di discorsi rivolti a te e su di te, destinati a te allo scopo di strangolarti con l'invisibile cappio dell'insinuazione. Sai che erano destinati a te come lo sanno quelle che ti infliggono le pugnalate. Ma da entrambi le parti il gioco vuole che si finga di non sapere, di non aver voluto dire, di non capire. Certe volte riesci a restituire il colpo allo stesso modo, e tu e la tua antagonista vi fronteggiate sorridendo da brave mentre le freccia avvelenata vibra maliziosa nelle reciproche ferite. Più spesso sei troppo disgustata per ribattere, perché sai che nell'attimo stesso in cui le farai crepitare falsamente in aria, dalle tue parole trasuderanno la paura e l'inadeguatezza. Così ti senti dire:"Piuttosto che restare chiuse in camera tutto il tempo, preferiamo venir bocciate"; poi, in tono soave: "Non ti vedo mai. Te ne stai sempre in camera a leggere". E tu tieni la bocca chiusa. E, oh, come sorridi!

Ti interroghi sui tuoi anni oscillando fra l'ostinata convinzione di aver sfruttato al meglio le tue capacità e possibilità...di essere ormai in competizione con ragazze di ogni parte d'America e non solo della tua città, e la paura di non avere fatto abbastanza.

Sei seduta in camera tua e senti nel corpo un dolore pungente che ti stringe la gola e si consolida pericolosamente nei piccoli sacchi lacrimali dietro gli occhi. Una parola, un gesto e tutto quel che tieni dentro - risentimenti imputriditi, gelosie in cancrena, desideri superflui inappagati- scoppierà in rabbiose lacrime impotenti e senza un preciso destinatario.

E tu digrigni i denti e  ti disprezzi per la tua tremula sensibilità, chiedendoti come possano degli esseri umani accettare che per tutta la loro vita vita la loro personalità venga stritolata senza pietà sotto una dittatura disumana, sia essa industriale, statale o istituzionale.

Mi riescono meglio le descrizioni illogiche, sensuali. Testimone la frase "Il vento ha spinto sul mare una luna giallo intenso: una luna bulbosa, che germoglia nel cielo indaco sporco e sparge occhieggianti petali luminosi sulla nera acqua fremente".

Perché sono ossessionata dall'idea di poter trovare un senso alla mia vita riuscendo a pubblicare manoscritti? E' una scappatoia - una scusa per ogni difetto nella vita sociale - per poter dire: " No, non esco quasi mai per attività extracurricolari, ma passo molto tempo a leggere e scrivere".

Sono capace di provare affetto solo per chi riflette il mio stesso mondo.

Società: il mio demone preferito.

La scrittura necessaria per la sopravvivenza del mio spocchioso equilibrio come il pane per il corpo. Pago lo scotto delle donne istruite, emancipate: sono ipercritica, esigente: forse il mio desiderio di scrivere si potrebbe ricondurre al puro e semplice timore di non essere ammirata e stimata.

Muoio dalla voglia di eccellere in qualche campo, non importa quanto ristretto, purché lì io possa brillare.

Perché non posso provare vite diverse come fossero vestiti, per vedere quale mi sta meglio e mi dona di più?

Il mio iniziale, disperato slancio d'entusiasmo non è forse un residuo del mio antico timore che le persone se ne vadano e mi abbandonino, costringendomi a rimanere sola?

La mia vita fino ad ora sembra pasticciata, inconcludente, disordinata: ho organizzato male i corsi, ho messo in atto una strategia senza regole uniformi, mi sono esaltata per le mie potenzialità eppure ne ho tarpate alcune per privilegiarne altre. Sto sprofondando nel negativismo, nell'odio verso me stessa, nel dubbio, nella follia...

Ci sono tanti altri che stanno peggio di me. Come posso essere così egoista da chiedere aiuto, conforto, guida?

I piccoli problemi, gli accenni alla felicità altrui, le prove del talento altrui mi spaventavano, così reagivo in modo falso per contrastare la gelosia, l'invidia, l'odio. Con la sensazione di finire in mille pezzi, imputridita, guasta, mentre gli allori avvizziscono e scompaiono e i peccati e le omissioni di tempo si abbattono pesanti su di me per punirmi fino in fondo. Tutto questo, tutto questo osceno sedimento incancrenitomi ha rosicchiato le viscere. Muto, insidioso.

Sono i tuoi stessi limiti a metterti in croce. Non puoi più cambiare le tue scelte avventate; ormai sono irrevocabili. Le tue occasioni le hai avute; non ne hai approfittato, sguazzi nel peccato originale; i tuoi limiti. Non sai nemmeno deciderti a fare una passeggiata; non sei sicura o la cura che ci vuole per riprenderti da quel tuo startene rinchiusa in camera dalla mattina alla sera.

Oh no, io devo sistemare la vita in sonetti e sestine, procurarmi un riflettore verbale per la mia testa illuminata a 60 watt.

Desiderio colossale di scappare, nasconderti, non parlare con nessuno.

Ci procura un sollievo incredibile sapere che qualcuno all'infuori di noi non sia sempre felice.

Sono stufa di loro. Non hanno niente da darmi. Per loro sono morta anche se prima ero in fiore.

Il dialogo tra la mia Scrittura e la mia Vita corre sempre il rischio di trasformarsi in uno scivoloso scarico di responsabità, in una razionalizzazione evasiva: in altre parole. ho dato un senso al caos della mia vita dicendo che le avrei dato ordine, forma, bellezza scrivendone; ho dato un senso alla mia scrittura dicendo che sarebbe stata pubblicata, dandomi da vivere. ora da qualche parte devo pur cominciare...

Dobbiamo muoverci, lavorare, fare sogni da realizzare; la povertà della vita senza sogni è troppo orribile da immaginare: è il peggior tipo di pazzia.

Perché non posso diventare ascetica per un po, invece di stare sempre in bilico tra il desiderio di completa solitudine per scrivere e leggere e il desiderio grande, grande, di mani che gesticolano e parole di altri esseri umani.

...fa male, Padre, fa male, oh, Padre che non ho mai conosciuto; anche il padre mi hanno tolto.

Inveisco e mi infurio ancora per la perdita di mio padre, che non ho mai davvero conosciuto; amo terribilmente persino la sua mente, il suo cuore, la sua faccia. L'avrei amato tanto; ma se n'è andato. Mi sento come troppo vecchia, con tutti i grandi morti prima che li conoscessi e soli i piccoli, i bambini, dopo di me.

Non posso semplicemente vivere: devo farlo per le parole che fermino il flusso. So che non avrò vissuto finchè la mia vita non sarà perpetuamente rinnovata nel tempo attraverso libri e racconti. La scrittura spalanca le tombe dei morti e i cieli che gli angeli profetici nascondono dietro di loro. La mente trama, trama e tesse le sue tele.

Prima la vita della mente creativa, poi quella del corpo creatore. [...] Scrivere, ogni giorno. Non importa quanto male. Qualcosa arriverà. [....] Scrivi ogni racconto, non per vederlo pubblicato, ma per diventare una scrittrice migliore e, in quanto tale, + vicina alla pubblicazione.[....] Ecco quel che mi serve per finirla con questo orrore: l'orrore di possedere del talento senza avere un'opera recente di cui andare fiera o almeno da mostrare.

Io ho questo demone che vorrebbe vedermi scappare, urlando se fossi sul punto di cedere, di fallire. Vuole farmi pensare di essere tanto brava da dover essere perfetta. O niente. Al contrario io sono qualcosa: una persona che si stanca a combattere sempre con la timidezza...

La gelosia, l'invidia, il desiderio disperato di essere qualcun altro...

Basta cedere alla disperazione, lamentarsi, lagnarsi: al dolore si finisce per abituarsi.

Disperata, appassionata: perché la vita di gruppo mi risulta impossibile?

Una di quelle notti in cui mi chiedo se sono viva, se lo sono mai stata.

Oh, se sola lasciata in pace, in che poetessa mi tramuterei!

Disonestà, una crepa. E io tutta stupidità e franchezza: quanto siamo scemi ad amare davvero! Senza imbrogliare. Senza doppi giochi.

...per sfuggire ai miei demoni esigenti e avere una scusa costante per la mia improduttività scrittoria.

E' come se avessi bisogno di una qualche crisi per mettere alla prova la mia tempra.

Sono spaventata. Da cosa? Dalla vita senza aver vissuto, in primo luogo.

Ho bisogno di una vocazione e di sentirmi produttiva e invece mi sento inutile. Mi sento colpevole per il mio malanimo sociale.

Mi rattrista molto non fare quello che gli altri e tutte le mie "madri" canute vorrebbero. Mi sentivo ingannata: non ero amata, ma tutto mi diceva che ero amata: il mondo mi diceva che lo ero, le autorità mi dicevano che ero amata. Mia madre aveva sacrificato la vita per me, un sacrificio non richiesto...

Tutti volevano che fossi come io nel profondo non voglio essere e con la società che sembra volerci come noi nel profondo non vogliamo essere: è con queste persone, è con questi modelli che sono arrabbiata.

Modelli della società: lo Scrittore e Poeta è perdonabile sole se ha Successo. Solo Se Fa Soldi.

Perché non riesco a tuffarmi nella scrittura? Perché ho paura di fallire prima ancora di cominciare.

Vecchio bisogno di dare a mamma delle soddisfazioni, per avere una ricompensa d'amore.

Siamo troppo introversi: troppo spesso preferiamo i libri alla gente.Coazione all'antisicurezza.

Sentivo che se non avessi scritto nessuna mi avrebbe riconosciuta come essere umano. La scrittura era la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo.

...ma chi guarda da fuori non lo vede, perché pensa che scrivere significhi starsene comodi a casa a bere un caffè e gingillarsi...

E' una difesa non lavorare: così non posso essere criticata per quello che faccio. Il fallimento mi spaventa a morte, blocca ogni tentativo di scrivere per non costringermi a prendermela con la mia scrittura se va male.[...] E devo scrivere senza l'impressione che il mondo mi giudichi. Ci devo pur riuscire.

La troia è una donna al maschile.

Perché sono invidiosa degli altri? Io sono io e la pioggia è bella su quei comignoli.

Mi sento come il recluso che si presenta al mondo con un vangelo salvavita e scopre che nel frattempo tutti hanno imparato una nuova lingua e non capiscono niente di quello che lui dice.

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