giovedì 28 ottobre 2010

Mar d'Autunno

Svegliata alle 7.15 da un’aria insolitamente frizzantina che penetrava generosa enfiando i lembi di velo delle tende, ho deciso di mettermi a studiare, senza star troppo a cogitarci su. Ho dimenticato di chiudere il balcone ieri prima di addormentarmi e boccate di ossigeno giovane, carico dell’odore fruttato dei cachi maturi e mogano della terra bagnata, penatrano gelate dalle narici, sciacquano e risvegliano completamente i miei neuroni.
E’ inutile. Reggo per due ore il quaderno di Lingua dei segni tra le mani, ne leggo le parole dai nomi complessi, cerco di tenere a mente struttura e funzionamente del cervello umano, ma ogni parola sfuma in pulviscoli di inchiostro e neanche il tepore delle coperte assaltato dalla fresca aria ottembrina, riescono a sciogliere quel groppo che si appropria della mia gola per giungere alle mie orecchie e ripetermi che tanto è inutile, che sono inadeguata, che sono incapace, che non ce la farò mai. Le migliaia di parole vergate sul quaderno si sdoppiano dietro lenti di lacrime trattenute e poi esplose insieme al quaderno sbattuto sul letto, alle coperte divaricate, alle persiane spalancate, alle mani che stringono la ringhiera fredda del balcone, ai polmoni che inghiottono fameliche il respiro dell’autunno indorato dalle foglie sanguigne, dal verde elettrico dell’erba, dal marrone dei frutti, dal celeste canterino del cielo.
E’ una giornata magnifica. Esco.

L’aria è carica degli odori di stagione, dell’intrusione dolciastra di rose ancora in sboccio e aromatizzata dai funghi vergini che mi fanno capolino da sotto gli steli, minuscoli ombrelli, troppo belli, troppo perfetti per non essere le future dimore di esseri fatati. Basta però allontanarsi dai prati che incorniciano il mio quartiere, che il dolce e nutrito profumo d’autunno si estingue nel salmastro marino, quasi questo voglia immediatamente  rivendicare la sua sopremazia su questi luoghi: deve esserci stato mare grosso questa notte, se l’odore si sente da qui. E infatti la distesa deserta della spiaggia risulta piatta e intonsa, ricamata da una lingua riccioluta di alghe, legnetti, foglie e conchiglie che segnano il punto in cui il mare è giunto stanotte, per poi ritirarsi in un’apparente quiete.
E’ un finto dormiente il mare d’ottobre. Lo vedo spesso in questi giorni e posso notarne ogni sfumatura quotidiana, ogni mutamento che lo trasformerà nella bestia indomita che è il mare d’inverno. Ha smesso ormai del tutto il sano blu cristallino di settembre. Riflette il cielo leopardato di nubi con una predominanza di color ciano che si stinge in acquamarina quando scherma il sole, a riva, alzandosi nel respiro precedente le onde eleganti, impettite, elaborate di schiuma così bianca che stride con l’acquamarina. A largo, macchie di cobalto si stendono sempre più larghe. Solo l’orizzonte è impreziosito da un sole luccicante di lamine di luce, tagliate da una nave, grande, bianca, forse da crociera.
Adoro camminare su questa spiaggia, lunga, infinita, piatta, per non so quante ragioni:
1)      perché si affonda di meno e si fa meno fatica;
2)      si possono notare gli arabeschi cuneiformi lasciati dai gabbiani;
3)      i solchi che lascio mi danno la confortevole certezza di esistere: io ho alterato la superficie, allora esisto;
4)      se non ci sono smottamenti, vuol dire che dopo il mare ho camminato solo io, che quello che è stato il suo regno ora appartiene a me sola;
5)      si sente l’odore, forte della salsedine, di pesce, di abissi bui, è qusi visibile e ti avvolge a ogni passo sprigionato dai granelli che si smuovono al passaggio.

Sto scrivendo e non riesco a fare a meno di pensare che non è normale ricordare tanti dettagli, viverli e sentire il bisogno di descriverli così minuziosamente. Perché mi richiama tanto intensamente il mar d’autunno? Perché non riesco a resistergli?
Ma mi sono stancata presto di camminare, forse perché da due giorni mi nutro solo con yogurt e qualche frutto. Ho fatto appena un kilometro e forte qualcosaina in più, sono ben lontana dai miei standard. Non resisto alla tentazione di stendermi sulla sabbia tiepida solo in superficie e immediatamente umida sotto. Le nuvole prendono il sopravvento velocemente, chiudendosi in lamine perfettamente combacianti e lasciando solo qualche spruzzo di turchese all’orizzonte, ma sono soffici, bianche, spumose, striate di un grigio troppo tenue per spaventare, cela echi di tempeste che sono ancora sopite.

Non so quanto ho dormito, forse 10 minuti, o forse mezz’ora non credo di più. Quando mi sono svegliata il cielo era di nuovo un manto di leopardo e i pochi pescatori incontrati avevano fatto fagotto. Sono tornata indietro molto faticosamente. Dovrò mangiare un po’ più che frutta a pranzo perché la testa comincia a girare e le orecchie sono attutite. Il garrire dei gabbiani le stappano. Hanno ripreso il sopravvanto sulla spiaggia, nevosi ed enormi visti da vicino molto più di quanto non sembrino in cielo, elaganti V ad ombreggiare il sole. Ho pensato che qualora mi avessero attaccato, colte da un improvviso impulso hitchcockiano, avrebbero facilmente avuto il sopravvento visto che la loro apertura alare mi supera in lunghezza e che nessuno se ne sarebbe accorto, perché c’era solo sabbia e acqua. Anche la nave da crociera è scomparsa e l’orizzonte ha riconquisdtato la sua linearità perfetta. Se il mare suggerisse ai gabbiani di attaccarmi, i suoi fedeli proseliti, che lui nutre e culla, non potrebbero esimersi da farlo. E lui potrebbe tranquillamente lambire i miei resti, avvolgerli nel rollìo delle onde, fagocitarli nel suo ventre, penetrare nel mio di ventre.
Ma i gabbiani si alzano solo in volo al mio avvicinarsi, compatti, come sempre, per depositarsi più in là. Come se non esistessi.
E’ sempre più dura togliermi di dosso l’odore del mare, anche il bagnoschiuma al cioccolato bianco non funziona più. Un giorno riuscirà ad avermi il mar d’autunno. Lo so. Mi vedo scomparire tra i suoi flutti smeraldini. E’ che non so ancora quando e non so come.

Nessun commento:

Posta un commento