martedì 26 ottobre 2010

Canto del mare vs Sapori di terra

Ho sempre delle splendide idee. No davvero, non è uno di quei commenti autostimolanti a cui nessuno crede sul serio, ma che vengono detti per rimpolpare il proprio ego. Le mie sono davvero splendide idee! (Il che comunque, volente o nolente, contribuisce a rimpolparlo, l’ego…). Sta di fatto che pur fiorendo, queste idee restano tali finchè non appassiscono, difficilmente le metto in atto. 
Stamattina l’ho fatto. Ho realizzato un proposito che già da tempo mi ronzava in testa. Niente di particolarmente originale o strabiliante in realtà, il suddetto proposito consiste nell’attraversare a piedi, via spiaggia, la distanza che separa la città di S. dal mio paese. Il risultato è che stavo per lasciarci le penne.

L’alba era passata da poco. Una bassa coperta di nuvole montate a neve si stendeva su un mare caffè e porpora, scontroso e ondulato. Non avevo fatto i conti,  prima di barcamenarmi nell’impresa, con due variabili:
1)      il mare di novembre, grigio, gonfio, burbero, lunatico, è alle porte, seppure in sfumature ancora tenui, ma le sue onde raggiungono già dimensioni e fervore non indifferenti;
2)      parte della costa da attraversare non la conoscevo, sapevo che si restringe in cunei rocciosi, ma con il mare gonfio, la spiaggia è risultata praticamente inesistente.
                       
Mi sono ritrovata così ad attraversare rocce spruzzate da onde alte il doppio di me, di uno spessore solido come non le avevo mai viste, ferrose, di terra liquida. Sferzavano la sabbia con un rombo ritmato, incalzante e si propagavano in lingue di torbida spuma, propaggini demandate a riconquistare il legittimo spazio vitale del mare, animale generoso che dormiente, d’estate, lo lascia agli umani. Sanno fare il loro lavore le propaggini, non ci piove.
Ero vicinissima alle onde, mi ero lasciata alle spalle ormai da decine di metri l’ultimo pezzo di lungomare, in un tratto di spiaggia misconosciuto appena fuori città, senza possibilità di fuga perché oltre gli scogli e la poca spiaggia c’erano solo mura di roccia e di vegetazione. Ma il punto è che non avevo paura. Ero affascinata e attenta a godermi il paesaggio appannato dalla bruma frizzante che le onde rilasciavano e che il vento mi sospingeva contro. 
Arrancavo sulla rena fastidiosamente umida e tra le rocce caramellate di alghe, finchè la spiaggia virò in una strettoia invasa completamente dal mare. Non era un tratto particolarmente lungo, ma angusto e stretto. Ripensandoci a mente fredda mi do da sola della matta per quello che ho fatto, ma ero stordita dall’odore del mare tanto forte e denso da rendermi difficile la respirazione, da imperlarmi le labbra di salso che succhiavo avidamente, senza accorgermene, come cocaina benigna che le mie labbra richiedevano sistematicamente. Non so seguendo quali criteri o geometrie mentali giungo a questo, ma il mare vissuto in maniera così inusuale mi fa sentire viva. Ho pensato possa trattarsi di una forma di scollamento della personalità dai vincoli fisici, simile a quello che si prova leggendo: dimentico chi sono e quello che faccio e mi riplasmo in granelli di salsedine così come mi immedesimo nei personaggi di un libro.
Tornando alla strettoia, tentai di attraversarla di corsa, assecondando la danza delle onde, approfittando della striscia di sabbia che il mare lasciava libero quando risucchiava i suoi tentacoli prima di sferrare un nuovo attacco, ma non fui abbastanza rapida o calcolai male le distanze o Nettuno volle punire la mia presunzione e l’onda mi beccò a metà percorso. Riuscii ad ammortizzare l’urto, una pietra mi colpì il ginocchio e mi fece male, ma a parte questo rimasi salda aspettando che il mare si ritirasse. Tutto sereno, dunque, non fosse che ero immersa fino al bacino nell’acqua tutt’altro che calda e che questa mi ribolliva intorno in mulinelli ramati e schiumosi di rabbia e che un fragore di spruzzi mi bombardava dal lato in cui le onde sbattevano sulle rocce. Forse ero spaventata, ma di certo non pensavo a questo. 
Pensavo che non c’era nessuno nei paraggi, nessuno avrebbe visto la mia fine come nessuno ha mai visto tante cose di me.
Pensavo che ho sempre avuto l’impressione che il mare mi volesse e che ora, ora che ero stata troppo incauta, mi avrebbe preso.
Pensavo che questo non mi creava dispiacere.
Pensavo che era normale, scontato, che prima o poi sarebbe successo.
Pensavo che la tracolla immersa nell’acqua pesava e mi segava il collo.
Pensavo alla prossima onda e alle sue dimensioni.
Pensavo di correre ma non vi riuscivo perché c’era troppo rumore.
Pensavo che quel rumore poteva essere stato creato solo per annunciare l’apocalisse e la fine a qualcuno.
Pensavo che se l’apocalisse non fosse giunta avrei dovuto spiegare a mia madre i vestiti zuppi. 
Pensavo che non sapevo cosa le avrei detto.
Pensavo che il mare non si ritirava.
E infatti non tornava indietro per caricare un’altra onda, non so perché, restava lì e sopraggiungeva altra acqua che mi strattonava, mi spingeva verso le rocce. Ero ormai immersa fin sopra la vita. Credo di aver avuto paura a questo punto, perché mi sono girata in qualche modo, mi sono tolta la tracolla troppo pesante e sono tornata indietro. Mentre finalmente il mare si ritirava ho perso l'equilibrio e sono caduta, ma sono riuscita a  trascinarmi lontano dalla strettoia prima che arrivasse una nuova onda. Se questa fosse arrivata e mi avesse trovata lì, per terra, non so cosa che avrei fatto…
Mi sono diretta rabbrividendo alla fermata degli autobus: la gente mi fissava ciabattare fradicia (i jeans rigidi, le scarpe un macigno, la borsa gocciolante, la giacca gelida, i capelli indomiti) ma non potevo fare a meno di sghignazzare immaginando la spiegazione che ognuno di loro stesse tessendo nel vedermi. Dalle loro facce niente di particolarmente fantasioso, temo.
Per fortuna la coperta di nuvole si andava indorando e scrocchiava raggi caldi come una focaccia ancora troppo friabile per segregare l’impervio sole del sud.
Ho lavato via il sale, la tensione, la cocciutaggine, il richiamo del mare con generose passate di bagnoschiuma al cioccolato bianco, afrore dolcissimo e molto umano per combattere il salato e selvaggio del marino. Ho cercato in una tisana al finocchio e liquerizia, il corposo e zuccherino sapore della terra, per dimenticare il bacio del mare. Ho rinchiuso le mie "splendide idee" nella cassaforte dell’estate. Ho deciso che se domani non piove vado di nuovo al mare…

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