domenica 31 ottobre 2010

Samhain alla nostra

Con zii e cugini alla cena di Halloween mi sono sbizzarrita mettendo in prova le mie capacità culinarie fino a oggi quotate meno di zero, ma che hanno subito una certa impennata dopo aver letto qualche libro di cucina e seguito qualche programma gustoso. Inutile dire che non ho assaggiato neanche uno dei dolci: avrei troppo patito i rimorsi di coscienza, più insistenti dei morsi della tentazione. Almeno un'altra settimana devo resistere, sabato prossima mi concedo qualcosina. Con mia madre (l'interesse comune per il programma "Cotto e mangiato" ci ha un po' avvicinate...almeno non si volta, ignorandomi troppo spesso) abbiamo provato tre ricette suggerite dal programma stesso:

1) TORTA MORBIDA ALLA MARMELLATA: torta senza lievito alla marmellata di marroni...

2) RISO AL LATTE CON AMARENE E CIOCCOLATO: coppette di di riso dolce al latte e con panna e sciroppo di amarenee e con cioccolato e granella di nocciole.

3) TORTA AL MARS:  questa l'ho fatta io da sola per il mio cuginetto. Riso soffiati, burro e sei Mars sciolti più M&M's (questa delle M&M's è una mia variante più golosa agli smarties di Benedetta Parodi e c'ho anche aggiunto un po di cioccolato fondente per lenire il sapore troppo dolciastro). Ho anche messo sopra una candelina a forma di zucca: è stato un successone!!! Rompere i Mars e veder filare il caramello (che io adoro alla follia), sprigionare l'odore soffice, ammaliante mentre cristalli di cioccolato al latte restano attaccati ad esso insieme al malto che, morbido, attenta  le mie dita...non saprei spiegare quanto è stato duro non addentarlo e bello scioglierlo con il burro. Ma per il resoconto del gusto dovremo attendere altri più benefici momenti.





Per avere un'idea della cena di Samhain che la mia famiglia e i miei parenti (esclusa mia sorella perchè ha uno rigore alimentare tutto suo) si sono goduti, oltre a questi dolci, basta immaginare: polpette di carne e polpette di melanzare e crocchette di patate, patatine fritte, melanzane ripiene, parmigiana, peperoni arrostiti e pitta appena sfornata, insalata greca. I vecchi Druidi avrebbero apprezzato? C'è da dire che ho acceso lumini e candele a forma di zucca e fantasmi e pistrelli ovunque per rimembrare gli antichi rituali, tenere lontani i morti e dare quel tocco di americanità che tanto mi piace. Non sarà divertenete ed estremamente fuori posto come un veglione di Halloween, ma l'effetto, condito dai sapori della cucina calabrese, è stato inedito e stimolante.

E io? 200gr di bieta e 150 di medaglioni di merluzzo. Una tortura, ma il masochismo forgia l'anima...

Al mercato con mamma




Non amo fiere e mercatini perché mi innervosiscono con tutti quei passeggini che ti arrivano sugli stinchi (“scusi signorina” scusa due cavoli stai attenta invece di tranciarmi le dita e poi plasmarti la faccia a pesce-lesso-ma-sa-sono-mamma-questo-è-il-mio-bimbo-tutto-mi-è-giustificato); e la gente che ti urta, che guarda caso è sempre quella che non conosce l’uso del sapone; i mercanti che urlano come indemoniati banditori le liste delle loro presunte imbattibili offerte; il troppo caldo o il troppo freddo. Venerdì scorso ho deposto questa bile, forte dell’autunno che mi propizia e del tintinnio di qualche soldo in tasca da poter spendere. Sono andata con mia madre e la prima, immancabile, sosta è stata al reparto cibarie che solitamente evito come la peste perché se nel settore indumenti c’è ressa, quello alimentare è come l’India all’ora di punta. Non ci andavo dai tempi della scuola mi sa… e non è stato niente male, mi sono divertita il che la dice lunga sul livello becero in cui galleggia la mia vita: trovo divertente andare a comprar frutta al mercato con la mamma, pensa te! O forse a dettarmi queste parole è il ricordo ancora vivido e goloso del piattone di frutta fresca, di stagione che mi sono spazzolata a casa, per pranzo, quel giorno.
E’ stato come un tuffo in un cantiere di produzione degli odori più svariati che ora si mescolavano, ora ti stordivano con la loro fiera, genuina indipendenza. Per non parlare dei colori: un abbaglio continuo a delineare forme perfette perché naturali per lo più, lussureggianti, moltiplicate, belle. Non so se riesco ad abbozzare un colore e un odore per ogni sezione dedicato ai diversi generi alimentare, ma voglio provarci perché la cosa non interessa e nessuno e questo, com’è naturale, mi galvanizza. E poi perché mi sono resa conto che oltre a essere molto divertente e stimolante, scegliere le parole più adeguate a descrivere un sapore, soprattutto se variegato come quello della frutta, è molto difficile e un ottimo esercizio. Il risultato è talmente musicale da permeare le frasi dello stesso gusto del frutto e viceversa.

FRUTTA: Il mio settore preferito è senza dubbio quello della frutta che, essendo all’inizio del mercato, comporta lo sconveniente e faticoso aggravio di buste appresso per il resto del tour, che segano le dita mentre le trasporto, attraverso la calca, per tutto il distretto alimentare.
Predominanza di pere che si fondono in molteplici, morbidi colori; cachi obesi di polpa; castagne lucide e legnose; mandarini ancora giovani verde arancio; noci segaligne; nocciole furbe, sfuggenti, così levigate che non resisto alla tentazione di immergerci le mani; mele variopinte e lucide; grappoli d’uva così belli, ma così belli  che staresti ore a guardarle, gli acini ammassati come centinaia di gemme preziose o appese, il grappolo stracolmo, trapassate dal sole che rende diafana l’uva scura, quella dai colori vinosi che dal viola tendono al bluastro, e vespertina l’uva chiara che dal verde pastello si accende nel dorato. E poi le susine polpose che accecano col giallo, col rosso aranciato, col viola prugna che nasce con loro; datteri zuccherosi; kiwi di peluria arrogante; le mandorle gusciate, sgusciate, pelate, tostate, caramellate, ce n’erano a bizzeffe ho dovuto resistere alla tentazione di rapirne un pugno e sgranocchiarne l’aroma biscottato e dolcigno; i melograni che aperti spiccano per il rubino sanguigni dei chicchi, eguagliato solo dalla mela più matura, quella più rossa della lussuria; i fichi indiani, i miei preferiti sono quelli dalla polpa color magenta che tingono le mani e la bocca col succo seminoso; e poi tanta altra frutta. C’erano gli esotici avocadi e manghi e c’era anche qualche rimasuglio di frutta estiva che strideva abbondantemente con l’esplosione più terrosa dei frutti autunnali: erano timide pesce dal velluto della buccia incerto e meloni raggrinziti, di un giallo sbiadito. Se ne stavano in disparte, pronte a sparire, nessuno le considerava.
Il colore predominante è quello della terra e delle foglie d’autunno: CASTANO BRUCIATO e ORO. Odore: ZUCCHERINO e MIELATO. Forma: TONDEGGINTE e SENSUALE.

VERDURA: troppa per elencarla. Su tutti, come sempre la zucca e i funghi mi incantano. L’ho detto mille volte che le forme dell’autunno sono quanto di più perfetto vi sia al mondo e i funghi rappresentano l’autunno stesso: di tutte le grandezze, di varie figure, di tutte le gradazioni dei colori della terra con quel profumo imponente, suggestivo, muschiato e cavernoso, di sottobosco e di mistero, di corteccia bagnata e di cerchio di fate. Per me è l’odore del bosco che è quanto di più romantico, onirico e intrigante vi sia sulla terra. Le zucche erano sterminate, lì a ghignare senza che nessuno le abbia incise con halloweeniani intenti, lunghe o tozze, grandi o più schiacciate, che dal verdognolo si temperano in quell’arancio denominato appunto “zucca” perché solo suo, sincopato eppure acceso, contornate dai semi ridenti se freschi, pallidi e salati se secchi. E poi grappoli di radicchio fucsia, sedani magri, finocchi spumosi, prezzemolo profumato, basilico fiorito, zucchine spinose e bianche come panna, carote giovani, rape mature ecc ecc ecc… Colore: VERDE GIADA e LAVANDA GRIGIA. Forma: ONDULATA e FILIFORME. Odore: quello delle cipolle li sovrasta tutti: fossero quelle bianche, perlate, più dolci; quelle dorate, esotiche e quelle di tropea, violeggianti e pepate. L’odore era quindi per lo più PICCANTE ma anche ERBOSO.

CARNE, UOVA, CONSERVE SOTT’OLIO, SALUMI e FORMAGGI: freschi, esposti all’aria aperta ti inebriano per poi intossicarti e farti quasi lacrimare per quanto inebrianti e speziati. Il salato delle carni e degli insaccati grondanti lardo e olio, che si mescola al formaggio ora cremoso e dolce, ora levigato e filante ,ora intenso e pecorino. Colore: ROSSO PEPERONCINO e BIANCO LATTE. Forma: OVALEGGIANTE e CONICA. Odore: CAPRINO e SPEZIATO.

PESCE: non riesco a tollerare tutti quei pesci morti che mi fissano con occhi sbarrati. Non esco matta per i pesci, ma per me mangiarli quando hanno la testa è una tragedia che non riscuote consensi. Alla festa di laurea di mia cugina non riuscii a mangiare i gamberoni perché mi fissavano con due spilli neri arrostiti, troppo profondi e accusatori per essere pesci e non posso più mangiare l’orata al cartoccio perché mi fa venire la nausea vederle la faccia. Infinità di pesci, crostacei, molluschi molti a me sconosciuti, dalle sagome standard o più linguiniformi o sottosale come baccalà e stocco o inscatolati sott’olio come il tonno. Un pesce spada ghignava sotto il naso pinocchiesco come se prima di morire avesse amputato la mano del suo carnefice e ne fosse soddisfatto. L’odore e la forma sono quelle del pesce, il colore: ALLUMINIO.

FIORI: periodo di Festa dei Morti (macabra festa ma anche ironica sembra quasi il “Complemorte” di potteriana memoria). Margherite bianche e sfumate di giallo fuoco e violaceo; crisantemi leonini; garofani rosati; violacciocche in mazzi; gladioli imponenti; orchidee eleganti; gigli candidi; rose dalle molteplici dimensioni e tanti altri. Un trionfo per gli occhi, triste pensare che adorneranno tombe invece che case dei vivi, che la loro breve vita sarà preposta ad allietare chi non può godere dei loro colori. Colore: PESCA e BIANCO ACCESO. Forma: MARGHERITA. Odore: RESINOSO e SCIROPPOSO.

DOLCI: se la contende col reparto frutta in quanto a bellezza e nella mia scala di preferenze. La frutta vince solo perché meno calorica e quindi la posso mangiare senza troppi sensi di colpa. Cioccolata e cioccolatini di forme tonde e squadrata mi chiamano con voci cremose e scricchiolanti di involucri luminosi, vividi, metallici. Ce n’è per tutti i gusti: fondente e nera come la pece,  al latte e bianchissima, alla menta, al cocco, alle nocciole, alle mandorle, ai pistacchi, al caramello, alla frutta, alle noccioline, al miele, confettato, al riso soffiato, in interni biscottati, schiumanti mou e malto, ai cereali, alle varie creme, che ricoprono wafer o barrette tostate o cremini o pan di spagna e tantissimi altri tipi. Sono sistemati in pozze rettangolari e che trabordano. Alcuni sfuggono per terra e bambini ingordi li sgraffignano di nascosto (niente telecamera al mercatino). E la sezione caramelle più colorata e nuvolosa, anche qui tutti i tipi e gusti, come altri tipi di dolci. Voi credete davvero che non si possa perdere la ragione se sottoposti a una tortura del genere? Se mi rinchiudessero in una stanza con quei dolci (metteteci anche torte alla panna, crostate alla frutta e sfoglie alla crema, cheesecakes, ciambelloni al cacao, dolci secchi e madorlati e biscotti croccanti…), legatemi e vedrete se non impazzisco! E’ il mio canto delle sirene. Colore: CIOCCOLATO BORDEAUX e METALLICO. Forma: MEZZALUNA CARAMELLA. Odore: BURROSO e FRUTTATO di UVA PASSA.

Il resto della mattinata lo passo a comprare un paio di leggings simil pelle con delle borchie alle caviglie (5 euro dopo che me n’ero misurata un paio identici da extyn dove costavano 20 euro, tiè fottiti extyn!); una maglietta con le frange e una sciarpa tripla predominata da nero, crema e blu cobalto: uno strato tartan, uno ricamato e uno a fiori con pendagli di monete antiche e ricami. Una meraviglia! C’era anche in rosa antico e marrone ma mia madre dice che mi stava meglio questa quindi…
Altra questione negativa del mercatino è che incontri parenti scomodi e persone del mio paesucolo che cerco di non incrociare mai. In particolare una delle mie tante ex amiche d’infanzia che chiamerò d’ora in poi, qualora sfortunatamente dovessi incapparvici ancora, Trondina (speriamo di ricordarlo sto nome…). Stava lì, scema come una barbabietola e mi spiace per la povera barbabietola che in effetti svolge alla perfezione il suo ruolo di barbabietola al punto addirittura d farmi dubitare della sua stupidità, ma tant’è…insomma era la mia migliore amica più per abitudine che per consenso, alle materne ed elementari, ma che smise questo ruolo quando tra noi si creò un abisso di personalità e di interessi. Quando, ovvero, mi resi conto che era stupida come una barbabietola. Sposò un paio d’anni fa quello che fu il mio primo vero amore di gioventù (il destino si accanisce contro di me lo so…) e ora sventola orgogliosa un pancione kilometrico che mette in risalto con maglie strettissime. L’ho incontrata nel settore tende che è già di per sé un settore che odio visto la ressa perenne e mia madre che pare convinta, ogni volta, che ci sia una specie di broccato d’organza dal valore inestimabile sotto tutta quella stoffa e che valga la pena perderci ore a scavare per trovarlo. Il risultato sono io che mi annoio mentre la bancarella dei cd rimette sempre le solite canzoni: Lady Gaga, la Amoruso e canzoni in dialetto calabrese. Insomma Trondina mi saluta come se volesse iniziare una conversazione proficua per il suo ego, che io sono subito pronta a smontare con un elusivo “ciao”. La vedo che mi fissa, mi passa e ripassa davanti cercando di attirare il mio sguardo sulla sua pancia. Non sa che la trovo ridicola e che sì, è vero, un po’ le invidio la maternità che io non raggiungerò mai, ma se il prezzo da pagare è essere una gallina stupida come una barbabietola allora…no grazie. La sera stessa ho frugato sul suo facebook  (pubblico affinché tutti possano condividere le sue gioie) le troiata che scrive e be’….no davvero… non basta la barbabietola a definirla. Devo cercarle un ortaggio più idiota. Continuava a sbirciarmi e non ho potuto nascondere un sogghigno tastando la caramella al lampone che mi ero fregata poco prima (non ho saputo resistere…): non la mangerò, ma mi godrò il profumo di sottobosco, guarderò il mondo attraverso di essa, il mio mondo di rubino rosato, dolce e acidulo, nel quale Trondina, il suo pancione e suo marito con l’età divenuto più scemo di lei, non potranno mai entrare.

giovedì 28 ottobre 2010

Mar d'Autunno

Svegliata alle 7.15 da un’aria insolitamente frizzantina che penetrava generosa enfiando i lembi di velo delle tende, ho deciso di mettermi a studiare, senza star troppo a cogitarci su. Ho dimenticato di chiudere il balcone ieri prima di addormentarmi e boccate di ossigeno giovane, carico dell’odore fruttato dei cachi maturi e mogano della terra bagnata, penatrano gelate dalle narici, sciacquano e risvegliano completamente i miei neuroni.
E’ inutile. Reggo per due ore il quaderno di Lingua dei segni tra le mani, ne leggo le parole dai nomi complessi, cerco di tenere a mente struttura e funzionamente del cervello umano, ma ogni parola sfuma in pulviscoli di inchiostro e neanche il tepore delle coperte assaltato dalla fresca aria ottembrina, riescono a sciogliere quel groppo che si appropria della mia gola per giungere alle mie orecchie e ripetermi che tanto è inutile, che sono inadeguata, che sono incapace, che non ce la farò mai. Le migliaia di parole vergate sul quaderno si sdoppiano dietro lenti di lacrime trattenute e poi esplose insieme al quaderno sbattuto sul letto, alle coperte divaricate, alle persiane spalancate, alle mani che stringono la ringhiera fredda del balcone, ai polmoni che inghiottono fameliche il respiro dell’autunno indorato dalle foglie sanguigne, dal verde elettrico dell’erba, dal marrone dei frutti, dal celeste canterino del cielo.
E’ una giornata magnifica. Esco.

L’aria è carica degli odori di stagione, dell’intrusione dolciastra di rose ancora in sboccio e aromatizzata dai funghi vergini che mi fanno capolino da sotto gli steli, minuscoli ombrelli, troppo belli, troppo perfetti per non essere le future dimore di esseri fatati. Basta però allontanarsi dai prati che incorniciano il mio quartiere, che il dolce e nutrito profumo d’autunno si estingue nel salmastro marino, quasi questo voglia immediatamente  rivendicare la sua sopremazia su questi luoghi: deve esserci stato mare grosso questa notte, se l’odore si sente da qui. E infatti la distesa deserta della spiaggia risulta piatta e intonsa, ricamata da una lingua riccioluta di alghe, legnetti, foglie e conchiglie che segnano il punto in cui il mare è giunto stanotte, per poi ritirarsi in un’apparente quiete.
E’ un finto dormiente il mare d’ottobre. Lo vedo spesso in questi giorni e posso notarne ogni sfumatura quotidiana, ogni mutamento che lo trasformerà nella bestia indomita che è il mare d’inverno. Ha smesso ormai del tutto il sano blu cristallino di settembre. Riflette il cielo leopardato di nubi con una predominanza di color ciano che si stinge in acquamarina quando scherma il sole, a riva, alzandosi nel respiro precedente le onde eleganti, impettite, elaborate di schiuma così bianca che stride con l’acquamarina. A largo, macchie di cobalto si stendono sempre più larghe. Solo l’orizzonte è impreziosito da un sole luccicante di lamine di luce, tagliate da una nave, grande, bianca, forse da crociera.
Adoro camminare su questa spiaggia, lunga, infinita, piatta, per non so quante ragioni:
1)      perché si affonda di meno e si fa meno fatica;
2)      si possono notare gli arabeschi cuneiformi lasciati dai gabbiani;
3)      i solchi che lascio mi danno la confortevole certezza di esistere: io ho alterato la superficie, allora esisto;
4)      se non ci sono smottamenti, vuol dire che dopo il mare ho camminato solo io, che quello che è stato il suo regno ora appartiene a me sola;
5)      si sente l’odore, forte della salsedine, di pesce, di abissi bui, è qusi visibile e ti avvolge a ogni passo sprigionato dai granelli che si smuovono al passaggio.

Sto scrivendo e non riesco a fare a meno di pensare che non è normale ricordare tanti dettagli, viverli e sentire il bisogno di descriverli così minuziosamente. Perché mi richiama tanto intensamente il mar d’autunno? Perché non riesco a resistergli?
Ma mi sono stancata presto di camminare, forse perché da due giorni mi nutro solo con yogurt e qualche frutto. Ho fatto appena un kilometro e forte qualcosaina in più, sono ben lontana dai miei standard. Non resisto alla tentazione di stendermi sulla sabbia tiepida solo in superficie e immediatamente umida sotto. Le nuvole prendono il sopravvento velocemente, chiudendosi in lamine perfettamente combacianti e lasciando solo qualche spruzzo di turchese all’orizzonte, ma sono soffici, bianche, spumose, striate di un grigio troppo tenue per spaventare, cela echi di tempeste che sono ancora sopite.

Non so quanto ho dormito, forse 10 minuti, o forse mezz’ora non credo di più. Quando mi sono svegliata il cielo era di nuovo un manto di leopardo e i pochi pescatori incontrati avevano fatto fagotto. Sono tornata indietro molto faticosamente. Dovrò mangiare un po’ più che frutta a pranzo perché la testa comincia a girare e le orecchie sono attutite. Il garrire dei gabbiani le stappano. Hanno ripreso il sopravvanto sulla spiaggia, nevosi ed enormi visti da vicino molto più di quanto non sembrino in cielo, elaganti V ad ombreggiare il sole. Ho pensato che qualora mi avessero attaccato, colte da un improvviso impulso hitchcockiano, avrebbero facilmente avuto il sopravvento visto che la loro apertura alare mi supera in lunghezza e che nessuno se ne sarebbe accorto, perché c’era solo sabbia e acqua. Anche la nave da crociera è scomparsa e l’orizzonte ha riconquisdtato la sua linearità perfetta. Se il mare suggerisse ai gabbiani di attaccarmi, i suoi fedeli proseliti, che lui nutre e culla, non potrebbero esimersi da farlo. E lui potrebbe tranquillamente lambire i miei resti, avvolgerli nel rollìo delle onde, fagocitarli nel suo ventre, penetrare nel mio di ventre.
Ma i gabbiani si alzano solo in volo al mio avvicinarsi, compatti, come sempre, per depositarsi più in là. Come se non esistessi.
E’ sempre più dura togliermi di dosso l’odore del mare, anche il bagnoschiuma al cioccolato bianco non funziona più. Un giorno riuscirà ad avermi il mar d’autunno. Lo so. Mi vedo scomparire tra i suoi flutti smeraldini. E’ che non so ancora quando e non so come.

mercoledì 27 ottobre 2010

Piove come se il sole piangesse

Una pioggia di lacrime tiepide, tinta del giallo timido dei raggi del sole d'ottobre, forma pozze scure dove si adagiano le ombre degli alberi.
Se ci guardo dentro posso scorgere il mondo degli uomini talpa.
Ha tamburellato con gocce puntute sulla mia testa, perchè oggi mi ero scordata di guardare il cielo.
Quindi l'ho guardato.
Ha smesso di piovere.

Psicologiando

Nessun test di Rorscharch, nessun lettino, nessun sogno rivelatore da analizzare. La mia prima, garrula seduta psicologica è stata una vera boiata, svoltasi all’insegna del raccontami-chi-sei-e-quello-che-hai-nel-cuore. Sai che pizza. Avrei dovuto risponderle “sai che pizza”.  Soprattutto quando ha iniziato a sciorinare le solite frasucole fatte per la serie “i problemi che non affrontiano non si risolvono ma ti restano dentro…i tuoi disturbi alimentari sono una conseguenza di questi problemi che in altre persone possono manifestarsi in altro modo…”. Però…conclusione geniale. Non ci ero mai arrivata da sola. Più che una psicologa immagino mi serva una tutor intellettiva. Inoltre pensavo che gli psicologi non indugiassero in mielosaggini e invece vi indugiano, vi indugiano eccome. Con un qual certo orgoglio mi aveva assicurato quanto le persone una volta uscite dal suo studio si sentissero sollevate “con un grosso peso in meno sull stomaco”. Il mio stomaco è anomalo, cara la mia psicologa. Continua a essere leggero ma solo perché è vuoto. Ieri ho mangiato uno yogut e due pere e oggi idem finchè non riesco a svuotare le mie viscere e a smaltire tutti i dolciumi e tarallumi ingurgitati tra domenica e lunedì. Quel che mi rimane è la sensazione di essere ormai entrata nel nutrito clan dei disturbati mentali. Non che non lo sapessi già ma aver acconsentito a sottopormi a una seduta psicologica, tinge il tutto di un’ufficialità fosca e passiva. Inutile dire che la cosa mi paice tanto. Ha il sapore mandorlato di una storia che comincia e promette sciroppati seguiti. Bisognerà aspettare metà novembre per assaggiarli…

C’è di buono che nell’attesa di colei che parla con la psiche, ho finalmente iniziato Jubiabà di Jorge Amado. Sono giorni che mi porto dietro il mattone di 2000 pagine del Meridiano su Amado, senza che lo apra  neanche per sbaglio. Non so perché mi costringo a leggere questo libro. 
Anzi lo so. 
Non mi interessa granchè di Jubiabà e altri titoli più invitanti mi attendono. Ma è l’ultimo dei romanzi proposti dall’antologia della Mondadori che mi manca da leggere: è una specie di sfida, finire tutto il Meridiano.
In più ricordo che questo libro mi fu strombazzato da una presunta lettrice, accanita scrittrice, regina delle lettere, pubblicatrice di racconti, da tutti annoverata tra le future promesse della letteratura italiana. Nonché cantante deliziosa e rockettara accanita, cinefila rapace, pensatrice profonda e tante altre cosucce. Una specie di dea lanciata in Terra per ammaliare, con la sua radiosa bellezza e intelligenza, noi umani plebei non alla sua altezza. Credo che leggerlo sia una sfida, una sfida beffarda e rognosa, anche nei suoi confronti, nei confronti della sua perfezione dorata. Lo leggo per riaffermare il mio ruolo di lettrice umana che si oppone alla lettrice divina dall’impeccabile excursus. Potrei fregarmene, ma è più divertente affrontare la sfida. D’altronde cos’ho da perdere?

martedì 26 ottobre 2010

Canto del mare vs Sapori di terra

Ho sempre delle splendide idee. No davvero, non è uno di quei commenti autostimolanti a cui nessuno crede sul serio, ma che vengono detti per rimpolpare il proprio ego. Le mie sono davvero splendide idee! (Il che comunque, volente o nolente, contribuisce a rimpolparlo, l’ego…). Sta di fatto che pur fiorendo, queste idee restano tali finchè non appassiscono, difficilmente le metto in atto. 
Stamattina l’ho fatto. Ho realizzato un proposito che già da tempo mi ronzava in testa. Niente di particolarmente originale o strabiliante in realtà, il suddetto proposito consiste nell’attraversare a piedi, via spiaggia, la distanza che separa la città di S. dal mio paese. Il risultato è che stavo per lasciarci le penne.

L’alba era passata da poco. Una bassa coperta di nuvole montate a neve si stendeva su un mare caffè e porpora, scontroso e ondulato. Non avevo fatto i conti,  prima di barcamenarmi nell’impresa, con due variabili:
1)      il mare di novembre, grigio, gonfio, burbero, lunatico, è alle porte, seppure in sfumature ancora tenui, ma le sue onde raggiungono già dimensioni e fervore non indifferenti;
2)      parte della costa da attraversare non la conoscevo, sapevo che si restringe in cunei rocciosi, ma con il mare gonfio, la spiaggia è risultata praticamente inesistente.
                       
Mi sono ritrovata così ad attraversare rocce spruzzate da onde alte il doppio di me, di uno spessore solido come non le avevo mai viste, ferrose, di terra liquida. Sferzavano la sabbia con un rombo ritmato, incalzante e si propagavano in lingue di torbida spuma, propaggini demandate a riconquistare il legittimo spazio vitale del mare, animale generoso che dormiente, d’estate, lo lascia agli umani. Sanno fare il loro lavore le propaggini, non ci piove.
Ero vicinissima alle onde, mi ero lasciata alle spalle ormai da decine di metri l’ultimo pezzo di lungomare, in un tratto di spiaggia misconosciuto appena fuori città, senza possibilità di fuga perché oltre gli scogli e la poca spiaggia c’erano solo mura di roccia e di vegetazione. Ma il punto è che non avevo paura. Ero affascinata e attenta a godermi il paesaggio appannato dalla bruma frizzante che le onde rilasciavano e che il vento mi sospingeva contro. 
Arrancavo sulla rena fastidiosamente umida e tra le rocce caramellate di alghe, finchè la spiaggia virò in una strettoia invasa completamente dal mare. Non era un tratto particolarmente lungo, ma angusto e stretto. Ripensandoci a mente fredda mi do da sola della matta per quello che ho fatto, ma ero stordita dall’odore del mare tanto forte e denso da rendermi difficile la respirazione, da imperlarmi le labbra di salso che succhiavo avidamente, senza accorgermene, come cocaina benigna che le mie labbra richiedevano sistematicamente. Non so seguendo quali criteri o geometrie mentali giungo a questo, ma il mare vissuto in maniera così inusuale mi fa sentire viva. Ho pensato possa trattarsi di una forma di scollamento della personalità dai vincoli fisici, simile a quello che si prova leggendo: dimentico chi sono e quello che faccio e mi riplasmo in granelli di salsedine così come mi immedesimo nei personaggi di un libro.
Tornando alla strettoia, tentai di attraversarla di corsa, assecondando la danza delle onde, approfittando della striscia di sabbia che il mare lasciava libero quando risucchiava i suoi tentacoli prima di sferrare un nuovo attacco, ma non fui abbastanza rapida o calcolai male le distanze o Nettuno volle punire la mia presunzione e l’onda mi beccò a metà percorso. Riuscii ad ammortizzare l’urto, una pietra mi colpì il ginocchio e mi fece male, ma a parte questo rimasi salda aspettando che il mare si ritirasse. Tutto sereno, dunque, non fosse che ero immersa fino al bacino nell’acqua tutt’altro che calda e che questa mi ribolliva intorno in mulinelli ramati e schiumosi di rabbia e che un fragore di spruzzi mi bombardava dal lato in cui le onde sbattevano sulle rocce. Forse ero spaventata, ma di certo non pensavo a questo. 
Pensavo che non c’era nessuno nei paraggi, nessuno avrebbe visto la mia fine come nessuno ha mai visto tante cose di me.
Pensavo che ho sempre avuto l’impressione che il mare mi volesse e che ora, ora che ero stata troppo incauta, mi avrebbe preso.
Pensavo che questo non mi creava dispiacere.
Pensavo che era normale, scontato, che prima o poi sarebbe successo.
Pensavo che la tracolla immersa nell’acqua pesava e mi segava il collo.
Pensavo alla prossima onda e alle sue dimensioni.
Pensavo di correre ma non vi riuscivo perché c’era troppo rumore.
Pensavo che quel rumore poteva essere stato creato solo per annunciare l’apocalisse e la fine a qualcuno.
Pensavo che se l’apocalisse non fosse giunta avrei dovuto spiegare a mia madre i vestiti zuppi. 
Pensavo che non sapevo cosa le avrei detto.
Pensavo che il mare non si ritirava.
E infatti non tornava indietro per caricare un’altra onda, non so perché, restava lì e sopraggiungeva altra acqua che mi strattonava, mi spingeva verso le rocce. Ero ormai immersa fin sopra la vita. Credo di aver avuto paura a questo punto, perché mi sono girata in qualche modo, mi sono tolta la tracolla troppo pesante e sono tornata indietro. Mentre finalmente il mare si ritirava ho perso l'equilibrio e sono caduta, ma sono riuscita a  trascinarmi lontano dalla strettoia prima che arrivasse una nuova onda. Se questa fosse arrivata e mi avesse trovata lì, per terra, non so cosa che avrei fatto…
Mi sono diretta rabbrividendo alla fermata degli autobus: la gente mi fissava ciabattare fradicia (i jeans rigidi, le scarpe un macigno, la borsa gocciolante, la giacca gelida, i capelli indomiti) ma non potevo fare a meno di sghignazzare immaginando la spiegazione che ognuno di loro stesse tessendo nel vedermi. Dalle loro facce niente di particolarmente fantasioso, temo.
Per fortuna la coperta di nuvole si andava indorando e scrocchiava raggi caldi come una focaccia ancora troppo friabile per segregare l’impervio sole del sud.
Ho lavato via il sale, la tensione, la cocciutaggine, il richiamo del mare con generose passate di bagnoschiuma al cioccolato bianco, afrore dolcissimo e molto umano per combattere il salato e selvaggio del marino. Ho cercato in una tisana al finocchio e liquerizia, il corposo e zuccherino sapore della terra, per dimenticare il bacio del mare. Ho rinchiuso le mie "splendide idee" nella cassaforte dell’estate. Ho deciso che se domani non piove vado di nuovo al mare…

lunedì 25 ottobre 2010

La minaccia dei libri in fragranze di biscotto

Non mi sono amici oggi i libri.
E sì che sono gli unici compagni che ho sempre avuto. Gli unici sempre presenti, gli unici su cui ho sempre potuto contare e che non mi hanno mai abbandonata o rifiutata. Delusa qualche volta, annoiata raramente, ma mai come ora sono stati tanto beceri e minacciosi. Non muoiono i libri, non ti si ammutinano contro, non ti giudicano. Ti avvolgono in spire immaginifiche e ti fanno sprofondare nel loro incantesimo. Ti accolgono sempre. Accolgono chiunque voglia fare la loro conoscenza senza distinzione alcuna. Loro la mia ancora di salvataggio, la mia riserva di amore, amicizia, solidarietà e avventura, ora mi fissano biechemente dal tavolo su cui li ho accatastati in due colonne malferme: da una parte le letture prossime, che avidamente mi invogliano a perdermi in mondo di lettere e parole; dall’altra quelli minacciosi e oscuri universitari che attendono che li apra e li studi. Aggressivi, infidi mi chiamano per ricordarmi la mia incapacità latente, la mia inadeguatezza rispetto agli altri che con tanta costanza e serenità li affrontano per abbatterli. Ne ho preso uno, sfiancata dalla fissità silente e perpetua del loro sguardo. Giace aperto davanti a me, i fogli ondeggiano incerti come le ali di una farfalla antica che rilascia nella mia stanza l’odore della biblioteca da cui il libro proviene.
L’unico posto che amo dell’università è quella biblioteca tra i cui scaffali ho passato gran parte di questi anni tormentati, tormentandomi ancora e ancora di più, alla ricerca di qualcosa senz’altro, ma senza sapere cosa sia, né come trovarlo. Forse questo è uno di quei casi in cui conta più la ricerca che la conquista del traguardo. O forse sbaglio a cercarlo in biblioteca questo qualcosa, ma perché è l’unico ambiente in quell’ammasso di cubi e di conoscenze che è l’università, in cui il mio stato d’animo si avvicina a quello che i profani chiamano “felicità”? Una biblioteca è senza tempo è senza limiti, è come una macchina del tempo e della fantasia e dello spazio tutto in uno. E’ sospesa in un’altra dimensione. Tutte le biblioteche del mondo sono sospese in un’altra dimensione. Devo vivere in quella dimensione per trovare il mio qualcosa? Devo vivere nei libri per essere felice? E’ vivere questo o è solo una proiezione di vita? O è la vita tutta ad essere una proiezione o io posso sopravvivere solo proiettandomi in una vita sbagliata…
Intanto “Psicologia della forma” di David Katz, vibra sospeso davanti a me, accusatore e rassegnato, confondendo il suo afrore con quello dei biscotti sfornati da poco che una parente ha ci ha appena portati, un odore caldo e corposo che mi riporta senza controllo a un’infanzia di timide domande, di gelate speranze, di stufa ardente in cui tenue scoppietta il fuoco mentre, febbricitante e arrotolata in raso celeste trini merletti e taffetà, da una bacchetta magica rudimentale lancio incantesimi che si sciolgono in coriandoli dai colori vivaci, mentre fuori altri bimbi giocano un carnevale a me quell’anno precluso.
Hanno lo stesso sapore di allora i biscotti, quando li utilizzavo come braccialetti e solo dopo che avevano assolto il compito di conferirmi una regalità da matrona li divoravo, centellinandone il gusto atavico, lo stesso che provava mia nonna da bambina quando li mangiava, salato, solido e olioso, dolce di finocchio e profumato di forno a legna. Non riesco a smettere di mangiarli e ingoio con loro il senso di inadeguatezza che il libro di Katz continua sospingermi su nelle narici. Domani urlerò sulla bilancia, ma per ora sono di nuovo quella fatina febbricitante che rende più bello il suo carnevale con una bacchetta di carta stagnola e un biscotto dal gusto della mia terra e dei miei avi.


Ho creato questo blog dopo aver salvato la vita a un pesce

L’ho creato perché voglio provare a scrivere senza pensare, senza censurare niente, spandendo in un oceano di pixel i dettagli della mia vita e dei miei pensieri che altrimenti andrebbero inghiottiti dall’oblio considerato che a nessuno interessano. Non che li leggerà qualcuno (a parte, forse, una persona) ma della cosa non mi importa granchè. Non mi importa granchè di nient’ altro in realtà. Voglio solo credere che questi frammenti possano dare forma a quello che sono, cosicchè io stessa se non qualcun altro, lo possa capire.

Il pesce lo salvai in quella che credo sia stata l’ultima domenica calda e assolata concessaci dallo strano, docile autunno di quest’anno, più figlio brunito dell’estate che anticamera uggiosa dell’inverno. Come da consuetudine settembrina, attraversavo il tratto di spiaggia che costeggia il mio paese: una non indifferente camminata di più di 2 km, appesantita dalla distesa di sabbia ora in dune granulose da scavalcare, ora leggera come farina in cui si sprofonda, ora rocciosa e paludata. Fatica superficiale perché amo alla follia il mare in questa stagione, trasparente, immobile dalle onde canterine; il calore del sole, un solletico che spilluzzica la pelle; i tappeti di gabbiani che si alzano compatti in volo non appena ti avvicini, nuvola bianca striata di grigio che fugge a un palmo dalla tua testa; i pochi bagnanti lì giusto per ricordarti che non sei l’unica umana rimasta sulla terra; qualche pescatore; le solite umano-lucertole pronte ad accaparrarsi ogni raggio di sole disponibile, tra cui nudisti fin troppo lieti di sventolarmi davanti le loro pudenda (si cercassero una spiaggia nudista, che cacchio!); conchiglie, stelle marine, vetrini gemmati dal mare che impreziosiscono la riva dopo le mareggiate notturne.
Proprio poco lontano dalla riva trovai il mio pesciolino spiaggiato, grande come un dito d’argento, unico superstite di un piccolo banco di pesci: i suoi compagni giacevano attorno a lui, grigi, spenti, senza un anelito di pinne, sorvolati da api famaliche. Solo lui si dimenava cercando di riguadagnare la riva, le branchie che fremevano e quegli occhietti fissi, spaventosi, che hanno i pesci, velati da uan disperazione quasi umana. Non potevo lasciarlo lì, ma non potevo neanche afferrarlo con le mani perché sono una gran codarda, inoltre lui non stava fermo…Cercai qualcosa con cui poterlo prendere ma la spiaggia mi si presentò stranamamente intonsa, neanche un bicchiere di plastica fuori luogo la ammorbava! E nessun essere umano meno codardo di me nelle vicinanze, solo un branco di imbecilli qualche metro più in là impegnati a far tornare la loro automobile in strada dopo averla condotta fino in riva. Continuavano a far stridere le ruote sulla sabbia andando avanti e in retromarcia ottenendo solo il risultato di far sprofondare ancora di più la macchina nella sabbia, ma pare che la cosa li riempisse di un feroce giubilo esternato in urla belluine. Mi diressi verso la conformazione rocciosa in cui solitamentta si ammassano rimasugli di bagordi notturni e spazzatura, ma tutto quello che trovai fu un nuovo murales in cui il fumetto di un’enorme rana con corona annessa, annuncia a tutti quelli che passano di lì quanto sono coglioni. Il che è abbastanza vero, quindi niente da ridire.
Mi dovetti accontentare di un pezzo di polistirolo e corsi dal mio pesce sperando non fosse morto. Si dimenava ancora, per fortuna. Lo presi col polistirolo e lo sollevai. In realtà mi cadde un paio di volte vista la mia proverbiale imbranataggine e credetti di avergli dato il colpo di grazia sotto lo sguardo beffardo della rana-re dei coglioni. Riuscii sorprendentemente a gettarlo in acqua seppur con qualche contusione di troppo. Non so se è sopravvissuto. Secondo mio cugino che incontrai qualche metro più in là, avrei dovuto prima ossigenarlo, ma di fargli la respirazione bocca a bocca non era il caso…. Non sono un’esperta in ittica ma so riconoscere un pesce vivo se lo vedo nuotare veloce, fare due giri in tondo sbattendo forte la pinna e poi scomparire verso il mare aperto. Voglio credere che sia sopravvissuto, anche solo un giorno in più, godendosi quella parte del mio mare che non potrò mai raggiungere e portandosi dietro il ricordo, qualunque sia il modo di pensare dei pesci, di quel mostro enorme e imbranato che lo ha restituito al mare.